Parlando di perdono…

Scarica il bollettino “Insieme” del 26 Novembre 2017

Leggo un’intervista a M. Recalcati, uno psicanalista che, da
psicanalista, parla del perdono:
“Perdono non è una parola che appartiene al lessico
psicoanalitico. Io la eredito dalla tradizione cristiana. È nella
cultura cristiana che il perdono diventa la prova più grande
dell’amore… Nel perdono l’altro è amato non perché ci
restituisce la nostra immagine ideale, ma nonostante abbia
lacerato quell’immagine.”
Lui parla in particolare del perdono all’interno della coppia,
ma penso che possa applicarsi ad ogni situazione.
E trovo qui una conferma di una caratteristica del Vangelo.
Quando una scienza umana riconosce il perdono come qualcosa
di profondamente umano, che risponde cioè alle aspirazioni più
autentiche dell’umanità, vuol proprio dire che il Vangelo non ci
impone “pesi celesti” che soffocano la nostra umanità, ma “pesi”
(cose che restano comunque difficili da vivere e che non sono
automatiche o spontanee), che però ci rendono più “umani”.
Del resto non potrebbe essere diversamente. So che rischio
di ripetermi, ma se è Dio che ci ha fatti, è probabile che sappia
anche come “funzioniamo”.

Un caro saluto.

don Gianni.

Diversità riconciliata

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È papa Francesco, nell’Amoris Laetitia, che usa questa
espressione, parlando del dialogo in famiglia, dove non si
dovrebbe tendere ad un’uniformità di pensiero, ma piuttosto ad
una diversità riconciliata, dove le differenze restano differenze
con tutta la loro difficoltà se vogliamo, ma invece che origine di
contrasto diventano motivo di arricchimento.
A dirlo così è bello e sembra anche facile. In realtà non è
facile (resta però bello); non è facile perché istintivamente
tendiamo ad eliminare le differenze; istintivamente vorremmo
che tutti fossero come siamo noi. Non solo in famiglia, anche
nella società.
E la nostra società spesso gioca su questo istinto umano, fa
leva sulla difficoltà che la differenza provoca, fa leva sulla paura
del diverso.
E invece di puntare ad una diversità riconciliata tende ad
un’esasperazione della differenza, del contrasto. Basta guardare i
salotti televisivi: i litigi fanno “audience”.
Per fortuna noi abbiamo a che fare con il Signore, che non
ha bisogno di “audience”, non ne ha mai avuto bisogno, neanche
nel Vangelo. Anzi.
E lui ci aiuta nelle difficoltà che provengono dalla nostra
diversità. Ci aiuta non ad eliminare, ma a far combaciare le
differenze.

Come siamo cari!!

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Quando ero prete alle prime armi (armi: faccio per dire!),
una gentil signora, in tono molto materno e “vissuto”, di fronte a
certe mie titubanze, mi disse, scioccandomi un po’: “Si ricordi,
reverendo, che tutto ha un prezzo!”.
Ero giovane, allora, e pieno di begli ideali; lei adulta ed
esperta della vita.
Ma non mi sono mai trovato a doverle dare ragione. Neanch’io, come voi, non ho mai creduto e non credo
tuttora che tutto abbia un prezzo, che tutto si possa comprare.
Soprattutto le persone.
Nonostante che oggi la società sembri adorare solo il dio
soldo e le persone che fanno “tendenza” spesso tendano solo ad
aumentare il prezzo sul loro cartellino.
E per fortuna che la pensiamo così: ve lo immaginereste
voi un mondo in cui tutto e tutti si potessero comprare e il valore
delle persone fosse solo questione di prezzo?
È vero che ogni tanto qualche scivolone nel tempio del dio
denaro capita anche a noi, purtroppo, ma si tratta appunto di
scivoloni.
Però mi viene un dubbio. Non sarà che mi sbaglio? Forse
anch’io, anche noi abbiamo un prezzo. “Siamo stati comprati a
caro prezzo” ci dice la parola di Dio, “a prezzo del sangue di
Cristo”. Ah, meno male!

Ritornano i fantasmi?

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Qualcuno dice che sono ritornati fra di noi i fantasmi: gli
spettri del razzismo, della criminalizzazione degli “altri”, del
mito delle barriere che ci salveranno dalla distruzione,
dall’estinzione.
E’ vero che in giro c’è questa sensazione, anche se non so
quanto questa “tendenza” sia effettivamente estesa e condivisa, o
se sia più rumore di zucche vuote e fumo senza arrosto.
Sta il fatto che il pericolo c’è.
Ma per fortuna esiste anche l’antidoto.
La giornata missionaria mondiale che celebriamo
quest’oggi ci assicura che lo spirito missionario è l’antidoto a
tutte le epidemie di razzismo, di complessi di superiorità, di
isolazionismo che ci possono minacciare.
Parte dalla convinzione che Dio è il Dio di tutti, è Padre di
tutti e che quindi tutti siamo fratelli. Cose che sappiamo tutti, e
che tutti abbiamo ripetuto chissà quante volte, e che non
possiamo dimenticare o rinnegare solo per il fatto che a un certo
punto diventano difficili da praticare.
Essere fratelli non è sempre facile, vivere ed agire da
fratelli non è sempre scontato ed indolore. Però siamo convinti
che ce la possiamo fare, con una buona dose di spirito
missionario.

La parrocchia che non c’è.

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Veramente il titolo giusto sarebbe “L’isola che non c’è”: una
canzone degli anni ’80 che certamente qualcuno ricorda. Mi serve per
continuare la riflessione su quello che dice il nostro vescovo Lauro.
Nell’incontro con noi preti, sviluppando i temi dell’assemblea
diocesana, ci diceva che spesso noi credenti abbiamo in testa l’idea di
una parrocchia che non esiste più, quella legata al campanile, con tutte
le strutture, tutti i gruppi, tutte le possibilità di celebrazioni e di orari…
E anche se ci accorgiamo che la realtà è cambiata, continuiamo,
per inerzia, a riferirci a questo modello che resiste nella mentalità
comune e se ci scontriamo con qualche problema continuiamo a cercare
la soluzione secondo questo modello che, continua don Lauro, non
esiste più.
Esempio, gli orari delle messe: la messa a Ravina è scomoda?
Ruotiamo gli orari con Romagnano! Si potrebbe fare, anche se ritengo
meno complicato che la gente di Ravina vada a Romagnano e
viceversa, se gli orari sono più comodi.
O la catechesi: c’è ancora qualcuno che non digerisce il fatto che
siano genitori e nonni a fare catechesi, anziché gli “addetti specifici”.
Per fortuna le nostre comunità hanno intrapreso un cammino con
buona lena, cercando di superare la logica del campanilismo,
nonostante certe difficoltà oggettive.
Si tratta di proseguire su questo cammino, con fantasia e magari
anche con qualche (speriamo piccolo) disagio.
Un caro saluto. don Gianni.

 

Chiesa di Belvedere

Chiesa di S. Antonio

seconda metà XVII secolo

La chiesa dedicata a S. Antonio da Padova venne completata nella seconda metà del XVII secolo e reca incisa sopra il portale d’ingresso l’indicazione della committenza e la data di conclusione dei lavori (“Questa chiesa fu fabricata per carità dalle comunità di Belvedere, Ravina, Romagnano, l’anno 1655”).

La prima testimonianza scritta dell’edificio, che peraltro disponeva di un solo altare consacrato in marmo, risale alla visita pastorale del 1749.

Il culto di Antonio da Padova (+1231), che si festeggia il 13 giugno, si diffuse in Trentino in particolare nel corso del settecento, con l’aumento dei pellegrinaggi sulla sua tomba tumulata nella chiesa dei frati di S. Maria di Materdomini a Padova. Canonizzato un anno dopo la sua morte, venne proclamato dottore della Chiesa soltanto nel 1946 da papa Pio XII. Al nome di S. Antonio sono dedicate nella diocesi di Trento otto chiese (consacrate tra 1630 e 1956) e numerose cappelle e capitelli.

La chiesa di Belvedere venne consacrata il 7 aprile 1674. Il campanile reca invece un’iscrizione che testimonia un suo completamento nelle forme attuali nel 1856.

L’edificio presenta un’unica navata con sei lunette che ospitano altrettanti dipinti che vennero completati nei decenni successivi alla consacrazione, tra cui un “S. Antonio benedice un moribondo” e due ringraziamenti per parti: uno con S. Antonio e la Madonna Addolorata (1745), l’altro con S. Antonio e la Madonna di Loreto (1754). Tali opere sono state restaurate e riposizionate dalla Soprintendenza per i Beni culturali della Provincia autonoma di Trento nel 2006 dopo un meticoloso restauro che ha coinvolto negli anni precedenti anche l’intero edificio.

Nella sacrestia della chiesa sono conservate due tele secentesche di autore sconosciuto: una pregevole deposizione di Cristo e un S. Domenico.

Nello spazio destinato ad ospitare il coro sono invece conservati sedici ex voto: dipinti ad olio su tela e risalenti in prevalenza al XVIII secolo, testimoniano la vivacità di un culto radicato nel circondario di Trento negli ultimi tre secoli.

Il 2 aprile 1945 ventisette capifamiglia della comunità di Belvedere espressero un pubblico voto a S. Antonio per invocare la protezione durante i bombardamenti alleati della seconda guerra mondiale. Ad un anno di distanza, il 2 aprile 1946, la comunità di Belvedere decise di festeggiare lo scampato pericolo ogni anno il giorno di pasquetta (il bombardamento avvenne infatti quel giorno), sottoscrivendo un testo che campeggia in copia su una parete della navata e recita: «Belvedere preservato prodigiosamente dal bombardamento aereo della sera 2 aprile 1945 ne ricorda oggi 2 aprile 1946 l’anniversario con un giorno di festa in ringraziamento a S. Antonio, patrono del paese, invocato dalla popolazione in quella terribile occasione. A testimonianza del proposito di conservare in futuro la festa del 2 aprile come festa votiva i capifamiglia appongono le loro firme. Belvedere di Ravina, 2/4/1946».

Custodi della chiesa è il GRUPPO DONNE BELVEDERE che si occupa della pulizia e manutenzione, dell’apertura su richiesta ai vari gruppi che ne abbiano bisogno e che si prestano in occasione della Festa del Patrono S.Antonio per l’organizzazione di un piccolo momento conviviale aperto alla popolazione.

Chiesa di Romagnano

Dedicazione

E’ molto difficile stabilire l’origine della dedicazione della nostra chiesa; si può solo affermare che in tutte le citazioni, anche le più antiche, la chiesa di Romagnano è intitolata a S. Brigida vergine d’Irlanda, vissuta nel V secolo. Santa Brigida nacque a Leinster verso il 453 e morì a Kildare nel 524. Negli anni precedenti san Patrizio, patrono d’Irlanda, aveva iniziato l’opera di evangelizzazione delle popolazioni celtiche, fondando numerose comunità cristiane e istituendo vescovadi nei centri più importanti. Anche Brigida, convertitasi alla nuova fede, fondò nella valle della Liffey presso una quercia sacra, l’importante monastero di Cell-dara (chiesa della quercia), chiamato poi Kildare. Per la Chiesa di Roma era importante che i luoghi considerati sacri dalle popolazioni autoctone non fossero distrutti e che il vecchio culto venisse sostituito dal nuovo. Così la simbologia attribuita a Brigida include la quercia, il fuoco, la fontana: elementi naturali sacri per i celtici, in seguito accolti e fatti propri dai cristiani. Cell-Dada rimase per lungo tempo uno dei più importanti centri monastici irlandesi e Brigida divenne molto popolare anche in alcune regioni dell’Inghilterra. Nei secoli successivi i monaci e i pellegrini d’Irlanda diffusero il culto della santa in tutta l’Europa occidentale: numerose sono le chiese a lei dedicate anche in Lombardia. Nella nostra chiesa la Santa è raffigurata nella pala di fine Seicento dell’altare maggiore ed a lei è dedicato il medesimo altare. La festa della santa Patrona cade il 1° febbraio.

CENNI STORICI

L’antica cappella di S. Brigida

La storia della chiesa di Romagnano è strettamente legata agli avvenimenti che, nel corso dei secoli, hanno coinvolto la chiesa di S. Apollinare di Piedicastello. Nel 1146 il Vescovo di Trento Altemanno decise la restaurazione del monastero di S. Lorenzo; a questo scopo furono chiamati i monaci benedettini di Vallalta di Bergamo ai quali fu affidata anche la chiesa di S. Apollinare con tutte le proprietà e le cappelle di pertinenza. Alla chiesa di Piedicastello faceva riferimento un’ampia zona sulla parte destra del fiume. In un documento del 1245 si afferma che la chiesa di S. Apollinare ha sotto di sé anche le cappelle di Ravina e Romagnano. I benedettini iniziarono un lavoro di bonifica continuato nel tempo dagli affittuari e dai nuovi proprietari. Piccoli appezzamenti incolti furono trasformati in campi coltivati a prato, grano, vigneto. Furono costruite le case e i masi per i contadini e per le loro famiglie. Nella cappella di santa Brigida veniva talvolta celebrata la messa mentre per i Sacramenti e per tutte le ricorrenze religiose ci si doveva recare alla chiesa di Piedicastello.

Le prime descrizioni della chiesa

Non abbiamo descrizioni della piccola cappella originaria mentre, a partire dal sedicesimo secolo, le relazioni delle visite pastorali contengono importanti informazioni. Dalla relazione del 5 maggio 1581: “…si recarono alla Villa di Romagnano dove visitarono la cappella di S. Brigida, il cui primo altare è dedicato a questa Santa ed consacrato. E’ ben ornato. L’altro altare eretto sul lato destro è dedicato a S. Vigilio, abbastanza ornato, manca una croce e uno sgabello ai piedi. Il terzo altare consacrato e dedicato ai Santi Pietro e Paolo…”. In quell’occasione viene dato ordine di coprire alcuni affreschi e di ripristinare il muro, a nord, del cimitero che allora era accanto alla chiesa.

I cinque altari del XVIII secolo

Nella Visita pastorale del 1749 vengono segnalati cinque altari. L’altare maggiore è dedicato a S. Brigida, gli altri sono dedicati alla Beata Vergine del Rosario, a San Giuseppe, alla Beata Vergine Dolorosa, a Santa Reparata Martire. Alcuni elementi presenti nella chiesa conservano la memoria dei santi a cui erano dedicati i vecchi altari: le statue dei SS. Pietro e Paolo, l’affresco di S. Vigilio, la statua di S. Giuseppe, la pietra dell’altare di S. Reparata (collocata all’esterno).

Concessione del fonte battesimale e consacrazione della chiesa

Sempre nella visita pastorale del 1749, il Visitatore vede i documenti attestanti la concessione del sacro Fonte e la consacrazione della chiesa. Il Fonte battesimale è stato concesso il 27 aprile del 1728; la Consacrazione della chiesa di S. Brigida ha avuto luogo il 28 ottobre del 1731.

Da curazia a parrocchia

La chiesa di Romagnano rimane cappella fino a tutto il XVIII secolo. La popolazione per ricevere i sacramenti e per partecipare alle più importanti ricorrenze religiose doveva recarsi in S. Apollinare, talvolta anche in Santa Maria. Nel 1711 il Preposito Monsignor Conte di Lodron e la Comunità di Romagnano stipulano un accordo in base al quale il Reverendo don Filippo Chiusole diventa cappellano del paese.

I compiti del Curato

Fino alla fine dell’Ottocento il rapporto fra vita civile e vita religiosa era molto stretto: il comune e la chiesa erano autorità autonome ma, per molte ragioni, interdipendenti. Al curato spettavano compiti inerenti la cura delle anime, la tenuta dei libri anagrafici, l’insegnamento, l’assistenza. Era inoltre tenuto alla collaborazione con l’autorità civile nella trasmissione di importanti informazioni di interesse pubblico.

Istituzione della parrocchia

Nel 1920 la curazia di Romagnano diviene parrocchia. Il primo parroco è don Giuseppe Pederzini di Castellano. Elenco dei sacerdoti, redatto il 1 agosto 1956 da don Albino Pederzolli, parroco di Romagnano dal 1945 al 1958.

  1. Don Filippo Chiusole da Chiusole 1711-1715
  2. Don Andrea Pedracchi da Terragnolo 1715-1729 morì a Romagnano
  3. Don Stefano Nardi dalla Nave 1729-1750 rinunciò, passò alla Nave, morì a Gazzadina nel 1766
  4. Don Salvatore Filosi da Praso in val di Bono1751-1755 rinunziò, passò primissario a Villazzano e poi curato a Cavedago
  5. Don Francesco Tommasi da Cognola 1756-1764 rinunziò, fu curato a Vezzano (66-71) morì a S. Massenza
  6. Don Gaspare Delaiti da Nomi 1764-1784 rinunziò per i posto di mansionario nel coro di Villalagarina
  7. Don Michele Casagrande da Brusago 1784-1798 morì a Romagnano
  8. Don Udalrico Quaresima da Tuenno 1795-1798 trasferito vicario parrocchiale a Isera
  9. Don Domenico Malpaga da Cognola 1798-1834
  10. Don Giuseppe Andreolli dal 1834 al 1836 morì a Romagnano
  11. Don Ignazio Rudari da Avio – 1836-1873 rinunziò, morì a Trento
  12. Don Luigi Veneri da Folgaria 1873-1875 morì in Romagnano
  13. Don Andrea Dusini da Cles 1875-1884 eletto parroco di Castelfondo
  14. Don Daniele Rossi da Verla 1885-1896 nominato curato di Sardagna
  15. Don Massimiliano Valvassori da Romano (Lombardia) 1896-1908 – morì in Romagnano
  16. Don Guido Stoffella di Vallarsa 1908-1911 rinunziò e morì a Vallarsa nel 1911
  17. Don Vittore Zadra da Taio 1911-1914 passò parroco a Spormaggiore, poi insegnante nel Seminario de Tirolo, morì a Taio
  18. Don Gedeone Pegolotti da Gazzadina 1914-1919 passò arciprete-decano di Cavalese, ove morì nel 1944

I parroci

  1. Don Giuseppe Pederzini da Castellano, I° parroco 1920-1923 passò arciprete a Lizzana, ove morì nel 1955
  2. Don Cirillo Bertoldi da Susà 1924-1943 morì in Romagnano
  3. Don Albino Pederzolli da Stravino 1943 -1958 La Cancelleria diocesana ha gentilemente comunicato i dati che hanno permesso di continuare l’elenco fino al periodo attuale.
  4. Don Mario Tait, 1958 – 1965
  5. Don Ilario Crepaz, 1966 – 1972
  6. Don Enrico Maor, 1972 – 1978
  7. Don Enrico Setti, 1978 – 1987
  8. Don Vittorio Dal Sas, 1987 – 1997
  9. Don Ivan Maffeis, 1997 – 2000
  10. Don Rodolfo Pizzoli, 2000 – 2003
  11. Don Stefano Anzelini, 2003 – 2009
  12. Don Gianni Damolin, 2009 – continua

Chiesa di Ravina

Chiesa di S. Marina

fine XVIII – inizio XIX secolo
Nella visita pastorale del 1749 a Ravina si censirono una chiesa di S. Marina e una “cappella pubblica”, seppur edificata dalla famiglia aristocratica Sizzo. Quest’ultima era dotata di altare marmoreo consacrato e dedicato alla natività di Maria. Nella primavera 1784 venne acquistata dalla comunità di Ravina con beneplacito della curia diocesana. L’assemblea di regola della comunità decise l’acquisto il 7 marzo e il contratto con il conte Antonio Sizzo venne sottoscritto a Trento il 19 aprile 1784 per una cifra complessiva di 695 fiorini, raccolta tra i possidenti locali ma con l’obbligo a tutti gli abitanti di svolgere turni di lavoro e forniture di materiali. La famiglia Sizzo si riservava una chiave d’entrata e la possibilità di assistere alle funzioni religiose da un’inferriata, separata dal resto dei fedeli attraverso uno spazio ricavato sopra la sacrestia.

L’edificio preesistente venne ampliato (la superficie dell’antica cappella Sizzo corrisponde all’attuale sola zona absidale) e per finanziare l’opera la comunità provvide a vendere a più riprese porzioni di terreni e sentieri gestiti in comune (in particolare in località “Costa” di Belvedere). I lavori vennero affidati a capimastri di origine lombarda, che fecero trasportare dalla vecchia chiesa di S. Marina posta nelle campagne (toponimo “Segrà vecio”) i portali e tre altari. Quello maggiore era stato infatti eretto in marmo nel 1779, mentre i due laterali erano stati pagati dalla famiglia Sizzo.
Completati in un decennio tetto e campanile, il 20 giugno 1804 la nuova chiesa di S. Marina veniva finalmente consacrata al suono delle campane già presenti nella vecchia chiesa. Erano anni di guerra e carestia, nonchè di saccheggi e gravosi acquartieramenti di truppe austriache e francesi che combattevano in tutta l’Italia settentrionale. Nonostante ciò e seppur con molta fatica, quando l’edificio venne completato Ravina disponeva di una chiesa ampia e moderna in una posizione centrale tra il “Paes vecio”, il “Borgo vecchio” e la costellazione di masi nelle campagne.
All’inizio del 1805 si vendette quindi il terreno sul quale sorgeva l’antica cappella di S. Marina e l’antico cimitero (da qui il toponimo “Segrà vecio”) posti nelle campagne sottostanti l’abitato di Ravina e sulla via che portava a Romagnano. Tale edificio, circondato da un cimitero, era ormai in disuso da tempo date le sue dimensioni e il suo decentramento dal cuore del borgo che lo rendeva scomodo e poco friubile soprattutto nei mesi invernali.

Citata già nel 1339, l’antica chiesa dipendeva dalla curazia di S. Apollinare di Piedicastello e venne ispezionata una prima volta durante la visita pastorale del 1579-1581. Aveva un altare maggiore consacrato alla santa e due altari laterali consacrati a S. Sebastiano e a S. Antonio. Dal 1502 qui aveva sede una confraternita laicale dedicata a S. Marina, che al momento della visita pastorale contava settanta capifamiglia aderenti. Sull’altare di S. Sebastiano compariva una data di consacrazione (“1674”) e nella chiesetta era conservata anche un reliquia di S. Marina, dichiarata autentica il 7 maggio 1729. Nel 1714 venne fondata la nuova Confraternita laicale del cingolo della Beata Vergina Maria, retta da due “sindaci” eletti tra gli aderenti e i cui vessilli erano conservati nell’antica chiesa di S. Marina.

Il curato di Ravina era stipendiato anche dalla comunità con denaro e beni di sussistenza ed abitava in un edificio in paese frutto di un lascito testamentario. La cura patrimoniale della chiesa e delle elemosine versate era invece riservata a un “sindaco” eletto annualmente dalla regola della comunità, affiancato da metà XVII secolo da due “questuanti”, obbligati a presentare annualmente registri di entrata e uscita all’assemblea di regola e al vice parroco di Piedicastello.
All’interno della chiesa si conservano tuttora due altari in marmo dell’originale cappella Sizzo, che presentano tracce di stemmi della casata (aquila vescovile alternata ad una barca in balia dei flutti con due fanciulli).
L’imponente pala d’altare ad olio posta alle spalle del presbiterio raffigura al vertice la Madonna della cintura. La composizione è ripartita orizzontalmente in due campi: in alto è presente la Madonna col bambino incoronata da due angioletti che reggono ognuno una cintura; ai lati sono inginocchiate S. Marina e S. Caterina d’Alessandria, mentre in basso sono effigiati S. Antonio da Padova e S. Agostino.
S. Caterina d’Alessandria (287-305ca) viene rappresentata con la corona in testa e vestita di abiti regali per sottolineare la sua origine principesca. La palma che tiene in mano indica il martirio, mentre la spada che compare sotto i suoi piedi simboleggia l’arma che le tolse la vita e la ruota dentata indica lo strumento del martirio. S. Marina di Bitinia (715-750) fu una monaca che visse sotto abiti maschili in un convento della Siria ed è venerata come santa anche dalla chiesa ortodossa e da quella copta. Le sue spoglie sono conservate dal XIII secolo a Venezia nella chiesa di S. Maria Formosa. È qui rappresentata con il bambino che allevò nel monastero maschile sotto falsa identità. S. Antonio (1195-1231) è raffigurato quindi con il tradizionale fiore di giglio, simbolo di purezza, che pare crescere dal suo petto, mentre ai suoi piedi si intravede un serpente, tradizionale esemplificazione del male e dell’eresia. S. Agostino (354-430) indossa infine mitra e paramenti vescovili, nonché un fiore di giglio al posto del libro che lo accompagna tradizionalmente.
Il dipinto è datato al terzo quarto del XVII secolo, è attribuito al pittore lombardo Carlo Pozzi e venne verosimilmente commissionato già per l’antica cappella Sizzo, sulla quale sorse ad inizio Ottocento l’attuale parrocchiale.